mercoledì 6 gennaio 2010

Orso e la poesia della neve


"Mamma, il cielo ci ha fatto un regalo".
"Ah si?"
"Si, la neve".

Mia madre si sdilinquisce subito manco la nonna di Giacomo Leopardi. Anche perché a noi la neve piace, specie a vederla cadere da dietro un vetro.

Mai come oggi però. Mentre riportavamo Ada a casa ha iniziato a nevicare. Il tempo di arrivarci, 10 minuti e stavamo messi così:
.

Il tempo di deviare per lo zoo, perché la fila si era bloccata e stavamo messi così:

Un'ora e mezzo per fare 500 mt. in una strada stramega secondaria e tranquilla, e forse un po'troppa gente ha pensato la stessa cosa, devio per la strada tranquilla.

A quel punto orso si è addormentato sul sedile di dietro, la macchina condivisa che non tiene il minimo manco a morire si spegneva di continuo e a me veniva il patema che si scaricasse la batteria. Il vento soffiava, la neve cadeva e i pedoni e ciclisti tentavano ad ogni piè sospinto il suicidio, che sarà una deformazione amitudinaria, non dico di no, ma ciclista benedetto di dio, vuoi scendere e spingertela a mano quella bici che è un'emergenza, tu stai lì lì in equilibrio sui pedali e noi slittiamo come pazzi e non possiamo controllare un bel niente in questa fila a passo d'uomo paralizzato? che se ci finisci sotto ti fai un gran male, a parte che il resto della fila è la volta che ti lincia?

Chiama il capo:
"Stavo per partire ma segnalano 150 km. di code e tutte intorno ad Amsterdam".
"Resta dove sei e mandaci un elicottero per tirarci fuori".
Allora ho fatto molto bene a fare la stradina tranquilla, se non avevo Ada da riportare minimo minimo alle 15.30 salivo sulla tangenziale ed ero rovinata.

Rinnovo almeno due volte l'orario di riconsegna dell'auto, a un certo punto faccio le 19 così sto tranquilla.

Ecco, in un'ora e poco più saranno caduti almeno 15 cm. di neve, nel momento in cui mi appoggio al marciapiede per scaricare i miei, due auto a fianco tamponano e una si spegne e cerchiamo di spingerla sul marciapiede, e sotto è talmente ghiacciato che la povera ragazza cade di culo spaventosamente.

Però, lo ribadisco, la poesia della neve che cade al cader della sera, finché non sono in autostrada, l'apprezzo moltissimo.

Il capo che poi è partito, sta ancora in coda.

Domani speriamo che parta l'aereo di mia madre, ma anche se resta qui un altro paio di giorni non è che mi dispiace, mi sa che però lei ormai ne ha abbastanza e vuole casetta sua.

martedì 5 gennaio 2010

Odi et Amo

"Bambini, smettete di giocare al computer perché è ora di dormire".
"Aaaaaaaarrrghhhhhh". Gesù, l'aria continua a vibrare almeno 40 secondi.

Lo sollevo di peso mentre il fratello se la squaglia. Lui si appiccica alla poltrona e si dibatte.

"Benissimo vai subito a letto" mentre lo trascino sopra. Calma. Non farti provocare. Non farti mettere sotto. Fermezza e decisione. Ha cinque anni e secondo il libro che mi ha rivelato un paio di cose, gli stanno spallinando i livelli di testosterone, non è colpa sua.

"Pigiama, pipì, denti". Si dibatte, urla e protesta.
"Io dal mio letto urlo fortissimo, e poi vi sveglio a tutti".

Gli tiro giù i pantaloni e lo metto sedere sul water.
"Dai, fai la pipì" mentre gli tolgo i calzini e gli infilo i piedi nel pigiama.
"Noooooo".

Mi impiastro un po' a tirargli tre strati di magliette e maglioni in un colpo solo e prima di staccargli le orecchie torno indietro.
"Scusa. Prima il maglione, così. Adesso la maglietta di Star Wars. Adesso la maglietta a collo alto. Adesso il pigiama, bravo. Denti?"
"No".
"Va bene, non te li lavi. Però adesso vai a letto".
"Io odio tuttooooo. Odio tutti gli animali del mondoo. E ti odiooooo".
"Va bene amore. Senti, va bene, puoi odiarmi. Ma io non ti odio mai, io ti voglio bene anche se mi odi perché sei il mio bambino".

"E vado a dormire nel tuo letto".
Lo prendo per un ramo d'ulivo.
"OK. Vuoi lavarti i denti adesso?"
"Si".
OK ha funzionato. Un paio di anni fa mi crucciavo che non sapevo cosa pensasse questo bambino. Poi mi sono tranquillizata perché mi sono accorta comunque che sapevo cosa sentiva. adesso non so, mi sembra così trasparente. Al contrario del fratello che sembra me dodicenne, tutta una crisi di pianto.

I denti se li lava benissimo, mentre il fratello perfettamente impigiamato osa venire a reclamare la sua pipì.

Lo accompagno giù, al mio letto.

Di fianco c'è il padre schiantato un attimo con i vestiti e tutto. Gli rimbocco le coperte. Mi spupazzo gli ospiti che aspettano sotto imperturbabili, ci facciamo un sacco di risate, li riaccompagno e qualche ora dopo li recupero, tutti e tre nel mio letto. Ennio dal mio lato, dorme compostissimo. Orso con la testa incuneata sotto l'ascella del padre, quando cerco di tirarlo fuori scopro che il capo gli schiaccia tutto un braccino sotto di sé. Dormono come massi.

Me lo porto nel lettone degli ospiti perché è l'unico dei tre che posso portare di peso sopra, nel sonno mi abbraccia, dormiamo insieme. Poi lo sposto perché è caldo come una stufetta e scalcia via le coperte, che a me invece servono tutte.

Cavolo, io speravo che con i terrible two trascinatesi nei terrible three poi la faccenda si normalizzava. Mi salta fuori il testosterone.

Però povera stella, mi fa una tenerezza. E ribadisco, meglio questo che una figlia adolescente come me da giovane.

PS Per chi volesse chiarirsi i misteri della fragile psiche maschile in crescita, a me Crescere figli maschi di Steve Biddulph mi ha chiarito un paio di cose. Ha altre carenze, come no, ma aiuta. Peccato non faccia parola della crisi adolescenziale degli otto anni, però visto che quella si sta normalizzando un po' alla volta, vuol dire che mi arrangio da me.

lunedì 4 gennaio 2010

Mai prendere il tempo sul serio, ad Amsterdam (e spiego perché)


Ieri mattina giornata ideale per un giretto in città, che mia madre vuole dei pantaloni di lana tipo i miei e ci avviamo verso i saldi di Claudia Strater. Ce la facciamo a piedi sui resti di neve pesta fino al traghetto, poi per le vie del centro, poi ci incrociamo brevissimamente con la bloggerfamily italiana in visita. Tempo da shopping, niente vento gelido, non fa neanche poi troppo freddo, soprattutto non piove e quel po' di fanghiglia nevosa per terra in città si è sciolta quasi tutta.



Intanto cade qualche fiocchetto di neve, ma talmente scarso e sporadico che manco ci facciamo caso. Poi ci infiliano per i vicoli fino al ristorante preferito che è chiuso, 10 mt. dopo al ristorante preferito nr. 2 ma a mia madre non piace e si rifiuta di entrarci, scegliamo un Thai a caso in Nieuwmarkt e gia mi rode, perché basta leggere la carta per capire che ci danno le stesse cose surgelate dell'altro al doppio del prezzo e il tizio al bancone non è Thai, ma sembra proprio della razza: voglia di lavorare saltami addosso, parla al telefonino, non ci caga, ci porta un'ordinazione senza riso e si meraviglia quando dopo averla guardata raffreddarsi per un po' glielo chiediamo e sospirando lo aggiunge all'ordinazione dal megaterminal dietro al bancone.


Poi è un Thai di quelli moderni minimalisti, piastrelle in finta ardesia grigia al pavimento, pannellature quadrate di fintapelle alle pareti, grigie in una sala, rosse nell'altra, tavoli laccati grigio antracite e placemat di paglietta lurida e sfilacciata, un locale che sarà il tipo antipatico al bar, ma mi dà tutta l'aria di quei posti messi su per riciclre soldi sporchi, come ce ne sono tanti. E la maniglia del bagno che ti resta in mano e potresti restarci intrappolata dentro.

Il bello è che il cibo non è che sia meno commestibile della trattoria delle signore, ma è la sensazione di essere finita in una trappola per turisti (e il rodimento che uno rifiuti di andare nel localino che io so per certo che ci mangio bene) che mi rovina il pranzo. Per dire il potere dell'immaginazione, che il locale è vuoto vuotissimo e solo dopo scopro che c'è un'altra sala dietro piena di gente più soddisfatta di me e mi rassicuro.

Però mentre mangiamo la nevicatina indecisa di poco fa, con il palazzo delle Pesa pubblica sullo sfondo che è sempre un bello sfondo con qualsiasi tempo, diventa sempre più decisa, con a un certo punto dei fiocconi enormi che cadono lentissimi. Il tempo di mangiarci una zuppetta e un antipasto in due e la piazza è tutta ricoperta.

Io propongo una metro alla vecchia madre stanca con ginocchio che protesta (che se non era il ginocchio col cavolo che entravo in quel ristorante lì, che 200 mt. dopo c'è n'era una sfilza dei miei preferiti), lei invece vuole camminare nella neve e ci facciamo tutta la Zeedijk (quella della prima foto) a piedi, sulla strada perché è meno scivolosa del marciapiedi e una ciclista a momenti ci mette sotto ma è anche l'unica su ruote che passa.

Ce la facciamo a piedi fino a casa e per allora, in 10 minuti la nevicata è finita, scendiamo dal traghetto e sullo stradone dove passano più macchine anche l'asfalto è di nuovo nero e compassiono quei turisti italiani da tossico-tour che abbiamo incrociato mentre pronunciavano la parola 'spacciatori' all'inizio di Zeedijk, ma che in effetti erano disperati all'idea di doversi trovare un riparo, e la coppia americana peraltro giovane di cui lui con tono deciso ha detto: "torniamo immediatamente in albergo".

Perché queste variazioni di tempo repentine ad Amsterdam non vanno prese così sul serio da decidere di tornare al rifugio: basta entrare in un baretto e prendersi una cioccolata calda, o farsi un giro di shopping in uno dei grandi negozi e per quando sei uscito la precipitazione è rientrata e con un po' di culo splende pure il sole o forse no.

Viceversa, quando ti svegli e vedi una di quelle giornate smaglianti che ti dici: oggi è proprio da farsi un bel giretto a piedi in città, portati una sciarpa ed un ombrello che non si sa mai, e non vorremo mica star lì a farci influenzare dai capricci del tempo in questo paese ventoso, altrimenti faremmo prima a ritirarci nelle catacombe e seguire la vita esterna da una telecamera fissa.

La fregatura di mia mamma è che dopo averci azzeccato di cappotto, guanti e cappello, nell'indecisione alla fine non si è portata le scarpe più pesanti, il che, ribadisco: portatevi delle belle scarpe solide, comode e antipioggia, che i tacchetti sui sampietrini si scrostano.

domenica 3 gennaio 2010

Sono un fenomeno a letto!



Io di marketing devo sempre averci capito poco.

Pattini d'argento e altre storie di neve e dune



Basta, persino la mia pigrizia circum-festiva (prima, durante e dopo) ha un limite, specie se in casa ho due bambini che da soli non escono e che passano il tempo a litigare su chi ha giocato mezzo secondo in più al computer.

Sciò, tutti a portare a spasso le pulci oggi che c'è il sole. E con nonna e nipoti siamo partiti con il seguente programma: prendere il latte dal contadino, andare al parco delle duen a Vogelezang, vicino Haarlem, nella zona dei bulbi, e finire in bellezza inugurando i pattini nuovi alla pista su ghiaccio di Haarlem. Dixi, feci.

Nei villaggetti fuori Amsterdam i fossi sono tutti ghiacciati, povera barca intrappolata. Pochi metri prima avevo visto davanti una casa due bambini imbacuccati e impattinati mentre la madre scendeva cautamente sul fosso a saggiare il ghiaccio.

Mi sono fermata: "Che dice, tiene il ghiaccio?"
"Si, ma ci ha nevicato sopra ed è tutto irregolare, pieno di bolle".

Se me lo dice la madre esperta, che io quel tanto di portare la nonna a comprare i pattini prima di Natale ce l'ho fatta, ma personalmente non ci capisco niente, meglio proseguire per la pista.

A Heemstede abbiamo affrontato il parco delle dune da un'ingresso secondario, quello della Leyduin, dove non si paga l'ingresso come a quello principale a Vogelzang. A quello principale ovviamente c'è il caffé che fa le frittelle sempre strapieno, e i giochetti per bambini all'esterno, per cui non si entra mai, e l'abbiamo evitato questa volta.


L'obiettivo era quello di cercare di vedere i cerbiatti, ma un po'non ci siamo addentrati più di tanto tra le dune (saggiamente, perché dopo 200 mt. Orso ha iniziato a lamentarsi dei piedi freddi e voleva tornare ed ha dichiarato che non ci sarebbe venuto mai più.


Ennio invece non voleva andarsene prima di vedere i cerbiatti e quando abbiamo girato per tornare da un altra strada si è offeso e ha dichiarato di non voler tornare mai più.

A me cominciava a venire da fare la pipì. Insomma, è stato bello finché è durato.

E allora ce ne siamo andati al complesso sportivo, dove dal ristorante si vedevano i campi di hockey su prato e pallamano e dove ci siamo sbafati un quantitativo impressionante di toast. Ennio mi ha stupito con effetti speciali perché un paio di ordinazioni è andato a farle lui da solo al bano, cosa che ancora quest'estate si vergognava a fare. Crescono, madonna se crescono, me lo faceva osservare stamattina mia madre, che con Ennio da quando è nato ha un rapporto privilegiato, ed improvvisamente stavolta lo ha visto fare benissimo a meno di lei.

Poi siamo usciti per andare alla pista, ma visto me mancava un'ora scarsa alla chiusura ho rinunciato ad affittarmi un paio di pattini per me. L'anello esterno era per chi si allenava alla velocità, tutti in circolo ognuno alla sua velocità, alcuni con i pattini a cerniera che si sono inventati alcuni anni fa per migliorare la velocità.

Al centro invece, raggiungibile dal sottopassaggio, c'era di tutto, ma soprattutto bambini e genitori. Ragazzine che piroettavano, bambini piccoli e piccoilissimi e tutti a caccia del magico cancelletto di metallo per reggersi. A un certo punto una signora un po' anziana mi ha fatto cenno che mi avrebbe ceduto il suo se la seguivo alla panchina dove aveva le scarpe.

E questo ha salvato Ennio. Perché i bambini sono già stati un paio di volte a pattinare con la scuola o il doposcuola lo scorso anno, però mentre Orso ha i pattini da principiante, quelli a lama doppia che si attaccano direttamente alle scarpe che hai, ennio per la prima volta ha dovuto arrangiuarsi sulle lame singole, che sono difficilissime.

Dopo un giro però ha preso confidenza, ha cominciato a stare meglio in equilibrio ed ha ceduto l'aggeggio al fratello.



Alla fine hanno preferito tutti e due andare a fare a palle di neve con altri ragazzini al mucchio dove accumulano la polvere spazzata via dalla macchina di volta in volte, ed io ho scoperto come regolarmi i pattini di Ennio (misura 38-41) sul 41 e tentare di fare un giro. Ho rinunciato subito, perché come ho visto che era successo a lui, abituare le caviglie a star dritte sui pattini non va da sé e erano ormai gli ultimi 5 minuti di apertura, troppo tardi per recuperare un cancelletto e provarci seriamente.

Per fortuna le previsioni del tempo annunciano freddo, si parla già persino di un inverno da Corsa delle 11 città, la famosa gara di pattinaggio in Frisia che si fa solo se si è stati 11 giorni almeno sotto zero e il ghiaccio è solido. Ogni inverno tutti aspettano con ansia questa botta di freddo, ma non succede più tanto spesso.

Fosse la volta che imparo anch'io a pattinare.

venerdì 1 gennaio 2010

Glossario aquilano contemporaneo

Grazie a Marcello per avermelo passato, l'originale lo trovate quiGLOSSARIO parte 1

SFOLLATO, agg. e s. m. (f. -a) [part. pass. di sfollare].
Genìa strana, promiscua, di difficile intelligenza e dai costumi incerti. Nei bestiari medievali non trova allocazione, e nelle liste di Linneo compare come allucinata perversione del genere: di ridotta umanità, perspicacia e capacità, si distingue per una sorta di reductio absurda del principio intellettivo, quasi che in essa permanga attiva solo l’anima vegetativa, e tutto il resto si trovi trasformato in una sorta di apparato provvisorio, privo di rizomi, insomma tale che l’intero organismo si presti ad un pronto e rapido travaso, alla sistemazione, temporanea o più o meno stabile, in terreni diversi per natura e qualità. È esempio classico di arrendevolezza e indecisione (disposto a tutto pur di non avere più nulla a cui pensare). Esposto al gelo, non si lamenta; tormentato dal solleone estivo, di tanto in tanto invoca sommessamente un condizionatore.

TERREMOTATO, agg. e s. m. (f. -a) [part. pass. di terremotare].
Specifica della v. precedente. Sottogenere. Dei tanti sfollati possibili, per fame o carestia, per diaspore politiche, guerre o stragi varie, lo sfollato terremotato rappresenta l’esemplare più invidiato e ricercato dagli amministratori per la sua versatilità. Salutarmente privo di nerbo politico, reso ancor più arrendevole da mesi di permanenza in tenda, in albergo o in “autonoma sistemazione” (v.), può efficacemente essere esibito come dimostrazione vuoi dei successi, vuoi degli insuccessi dei governanti di turno. È antica e irrisolta questione la possibilità di attribuirgli responsabilità giuridica e autonomia decisionale. Purtuttavia i Padri della Chiesa gli riconoscono un’anima. Ma che sappia cosa farne, è cosa dubbia.

SINDACO TERREMOTATO, s.m. + agg.
Tipico del teatro d’antàn, evoca il passato glorioso degli scavalcamontagne delle scene italiane, di cui però perpetua l’aspetto meno eclatante e discutibile. Sostanzialmente è un generico con tendenze di promiscuo che, alla maturità degli anni, si prova a passare prim’attore e capocomico. Salto non sempre coronato da successo, per la storica incapacità del ruolo di esercitare sugli altri comprimari una qualsiasi autorevolezza. Di maggiore presenza nei drammi pirandelliani come alter-ego del “brillante”, con cui spesso intreccia un fitto dialogo fatto di impossibilità espressive e linguistiche, contorna le sue rare tirate di amletica incapacità, di cui si pasce. La progressione del ruolo è tratteggiata nella linea che da “Ma non è una cosa seria” corre fino a “Questa sera si recita a soggetto”, passando per “Il gioco delle parti”… Col celeberrimo “Il sindaco del rione Sanità” di Eduardo, si eclissa. Dubbio il tentativo di alcuni autori contemporanei di resuscitarne le funzioni, frazionando il personaggio in aspetti prismatici e poco complementari come, appunto, il sindaco, il presidente del consiglio di amministrazione, l’onorevole, il medico ecc. Coinvolto in questo gioco, si rivela sempre più vittima della sua origine di coadiuvante e deuteragonista, poco incline al passaggio al ruolo maggiore di antagonista o oppositore.

CAPO, s.m., della PROTEZIONE CIVILE (v.)
Figura sostanzialmente nuova, di derivazione indubbiamente cinematografica, unisce in sé caratteristiche che vanno da Robin Hood (in particolare quello di S. Connery, vicino alla pensione) ad Indiana Jones: come il primo, ama passeggiare nel suo bosco privato, trasformato per esigenze di scena in tendopoli; come il primo è spesso introvabile, inattaccabile, preciso e funzionale. Del secondo ha la immediata intelligenza filmica della situazione, il gusto dell’apparizione “al momento giusto” e la capacità di operare scelte che, quantunque discutibili, restano comunque irrevocabili e costituiscono il motore dell’azione a venire. In tal modo rilancia sempre al massimo il suo futuro. Sostiene nella drammaturgia il ruolo fondamentale di chi ispira fiducia e dispensa buoni consigli. La sua semplice apparizione dona sicurezza e tranquillità, che elargisce volentieri e a piene mani. Coltiva una non segreta vocazione umanitaria che potrebbe, un giorno, farlo approdare ad una “missione impossibile” africana, ultimo (per ora) atto della serie che lo ha reso celebre: “Alla ricerca dell’inceneritore perduto”, “Il capo della Protezione Civile e l’ultimo terremoto”.

C.A.S.E.
Acrostico con probabile finalità apotropaica, compare enigmaticamente in terre devastate da terremoti. Gli etnologi lo leggono in funzione del classico processo di “destorificazione del negativo” tipico del mondo magico. Simile al “breve” che ancora in Abruzzo si tramanda (S. Pio delle Camere), può essere esibito come progetto di allontanamento del male. I latinisti preferiscono leggervi una traslitterazione del “caseus abundeat semper eis”, beneaugurante e diffuso motto per gli sposi novelli, dal sottile richiamo fallico. Per altri, andrebbe sciolto tenendo conto del sistema di classificazione delle abitazioni colpite da sisma, alla più gravemente lesionata delle quali si attribuisce la lettera “E”. Dunque, CASA “E”, ovvero per crasi CAS’ “E”. Ma anche “CASA È”, dal grido di dolore degli abitanti de L’Aquila al vedersi abbattute senza appello né preavviso le abitazioni in cui risiedevano prima del sisma. Ultimamente, alcuni dialettologi propongono di leggere che a esse è, indicante un generico difetto di proprietà di un immobile, comunque tale da giustificare l’allontanamento forzoso dell’occupante il bene stesso. Sottilmente, uno storico contemporaneo ne propone l’integrazione con il motto della città dell’Aquila (dove per primo l’acrostico è comparso): P. H. S. // IMMOTA MANET // C.A.S.E.! che decifra come “La Protezione Civile (Publica Salus) resta ferma qui (Hic Immota Manet), con loro grande soddisfazione (Cum Amplissima Satisfactio Eorum)”, nel che si può leggere un velato richiamo ai costi dell’operazione Abruzzo nel 2009. Tuttavia l’interpretazione ha avuto scarso seguito. Più coerente appare l’ipotesi del frazionamento ad uso esclamativo o declamatorio, per scandire il vocabolo nei cortei di protesta dei senzatetto: C.A.S.E., C.A.S.E., ecc.”

AUTONOMA, agg., SISTEMAZIONE, s.f.
Elegante e colto richiamo all’antica arte di arrangiarsi, indica coloro che sanno spesso fare di necessità virtù. Il soggetto è in “a.s.” quando, né richiuso nelle tendopoli, né ospite forzato di una stanza d’albergo, pur di non disturbare riesce a scomparire nel nulla, evitando di essere compreso in liste, graduatorie, classificazioni o stime ufficiali. Capace di moltiplicare i pani e i pesci, perennemente in equilibrio instabile tra il biblico e il leggendario, l’autonomo-sistemato finisce spesso per vivere in un mondo solipsistico e debole, una provvisoria bolla di sapone che si frange poeticamente contro l’inevitabile durezza del reale. Assuefatto a equilibrismi e prestidigitazioni, non reagisce quando diventa egli stesso oggetto di esperimenti da baraccone; se, ad esempio, il Capo della Protezione Civile volesse gratificarlo di un 700 o 800 – facciamo per dire – euro, ecco che egli, modestamente, non potrebbe accettarne più di 100, o al massimo 200. Coltiva privatamente una sua vaga incertezza, una trasparenza sfumata ed impossibile, tanto che in fondo è il primo a dubitare della sua stessa esistenza.

Capodanno a Nieuwmarkt



Allora, la bloggerfamily italiana è arrivata e siamo andati a prenderli in campeggio.
Come i re magi sono arrivati carichi di oro incenso e mirra in forma di salsicce, soppressata e cesto di robine buone. Prego di notare la sciccheria della salsicciona in forma di stella.

Abbiamo mangiato a casa e abbiamo saltato d'ufficio i fritti (che le frittelle ce le siamo sbafate a colazione con il capo, io farcite di soppressata e lui di miele e stasera ci riproviamo che i topinambur aspettano). Spedito i figli a letto, orso ha dormito e poi ha fatto una fatica bestia a svegliarsi, Ennio ha finto, ma poi è tornato a farsi fare le coccole.



Arrivati in macchina in centro, parcheggiamo sotto lo Stopera insieme a un numero infinito di francesi, del genere ex-coloniale, tutti in ghingheri che fa un bel vedere, ma casinisti al massimo. E nessuno trovava la scalinata di uscita dal parcheggio perché ce n'era aperta solo una. Una claustrofobia, con Ennio in piena rottura adolescenziale che quindi cammina, balla, non sta in fila, ho sempre il patema che una macchina parcheggiante se lo ficchi sotto, e Orso non ancora del tutto sveglio che si fa tirare per mano.

Usciamo dal lato del'Amstel, con la torre della zecca bella illuminata a distanza e lì Orso parla e capiamo che si è definitivamente svegliato.

Quanto mi iace questa parte vecchia della città tra i vecchi valli difensivi del porto, il Kloveniersburgwal, l'Oudezijde d'innanzi e quello di dietro. Abbiamo risalito l'Oudezijde voorburgwal fino alla Damstraat che in quel punto in realtà ha un'altro di quei bei nomi medievali. I nomi medievali della parte di Amsterdam intorno al porto, la pesa e piazza Dam, con come mio culmine preferito la Wijde Lombardsteeg e la Enge Lombardsteeg proprio intorno alla Borsa, e ci stanno tanto bene.

Perché in parecchie lingue del nord, tra cui il polacco, il lombard non è uno che vota lega, ma quello che presta soldi a pegno (sempre strozzini sono). Noi intanto arriviamo a Sint Jan e depositiamo le borse in ufficio, e poi via per i vicoli fino a Nieuwmarkt, dove il figlio preadolescente viene introiettato attraverso un vicolo di signore in vetrina, con il padre che gli fa i paraocchi (povero figlio, che non aspettava altro, chissà quante ne avrà da raccontare agli amici).

"Ma chi sono quelle donne?" fa Ennio con il suo ben noto spirito scientifico che mi fa sempre le domande.

Coerenza, ci vuole coerenza nelle risposte, visto che è il secondo capodanno di seguito che passiamo per quel vicolo per vedere i fuochi.

"Lavorano. Stanno lì per farsi vedere. In un certo senso, fanno la pubblicità ale mutande" che uno potrebbe dirmi: ma se fai così fatica e ti tocca quasi mentire a tuo figlio per spiegarglielo con concetti già noti, che ce lo porti a fare per il secondo anno consecutivo?


Perché la logistica Capoddanizia al centro vecchio di Amsterdam più di tanto non consente, e i fuochi al Nieuwmarkt ne sono davvero valsi la pena. L'anno prossimo giuro che ritrovo per tempo le chiavi della bici, che mi latitano da almeno dieci giorni e lo so che mi sono scomparne nella furia di riordino apparente prima di Natale, ecco, il prossimo nno ci andiamo in bici, sempre almeno che il traghetto passi, che non si capiva se passava quello principale sempre e comunque, o se avrebbe ripreso dopo le due come tutto il trasporto pubblico.

Comunque data la splendida idea di trasferire i festeggiamenti di Capodanno dal Dam alla piazza dei Musei, in centro c'era meno ressa dgli altri anni, e sia noi, che i rgazzini francesi ben vestiti e con la porporina nei capelli che abbiamo reincrociato rientrando al parcheggio, ce la siamo proprio goduti.

Così spero anche di voi.