Sul Corriere leggo l'articolo di Susanna Tamaro che vi riporto di seguito.
A parte che ogni paio d'anni mi rileggo qualcosa sul corriere e ogni volta mi ricordo perché in realtà cerco di non leggerlo, e che questo è un tipico articolo da Corriere che mi fa passare la voglia di leggere il Corriere, ma:
DI COSA PENSA DI STAR PARLANDO LA TAMARO?
Qualcuno me lo spieghi perché io davvero non capisco. Per spiegare bene la ripugnanza che mi suscita il testo che segue dovrei rileggerlo alcune volte e in questo momento non ho voglia di fargli l'esegesi. Non ho voglia di prendere un paragrafo alla volta e spiegare perché a mio avviso è pieno di errori logici, mancanza di buon senso e impregnato invece di un insopportabile paternalismo.
Vi invito, se ne avete voglia, a leggerlo e dirmi che effetto fa a voi.
Vorrei dire solo una cosa, quella che non c'entra a mio avviso con la maternità, ma con il piacere sessuale, su cui mi pare siano incentrate la maggior parte delle non-argomentazioni: la domanda "dove sono Giulietta e Anna Karenina" è malposta e soffre di quella che io chiamo la sindrome Santa Maria Goretti. Santificata perché meglio morta che sverginata (come vedete non ce l'ho con la povera stella, che la capisco tutta, ce l'ho con il mercimonio che è stato fatto da parte della chiesa cattolica del suo omicidio a favore della retorica della repressione sessuale femminile).
Cara Tamaro, io non so lei dove li abbia letti i suoi classici, ma non mi risulta che né Anna Karenina né Giulietta siano morte vergini, anzi, mi pare anche che siano le eroine della passione accettata e vissuta in barba alle convenzioni e alle conseguenze disumane che queste ponevano alle stesse. Una passione che hanno pagato con la morte.
Come dicevo prima, un sacco di incongurenze su quest'articolo, come se le madri avessero bisogno pure di questo tipo di pubblicità tendenziosa. Perché a me piace ricordare che sia solo statisticamente le donne e i bambini seviziati, torturati, stuprati e ammazzati da uomini (da padri e mariti più spesso che da estranei o dal pazzo di passaggio) sono in numeri tali, che prima che le madri ci si avvicinino solo lontanamente, ci vorrebbe un'ecatombe, che peraltro nessuno auspica. Un'ecatombe che non c'è, e allora, questo articolo che senso ha?
Basterebbe un po'di buon senso. Mi dite la vostra e ne parliamo?
Donne che uccidono i figli
Il senso (perduto) della maternità
L'evoluzione dei costumi ha trasformato l'universo femminile nel clone di quello maschile
di Susanna Tamaro
Sempre più spesso, negli ultimi vent’anni, la cronaca testimonia casi di madri che uccidono i propri figli. Non uccidono solo neonati - cosa che rientra nelle patologie comprensibili della depressione post partum - ma uccidono bambini di sei, otto, dieci anni, bambini per i quali hanno preparato le torte di compleanno, a cui hanno insegnato a camminare e con cui hanno condiviso le fantasie e i sogni sul futuro. A Faenza, una donna italiana, impiegata e regolarmente sposata, all’insaputa del marito - che ignorava la sua gravidanza! - ha partorito di notte nel bagno, nascondendo il bambino in un sacchetto di plastica con l’idea di sbarazzarsene. Pochi giorni fa a Rieti una madre ha lanciato la propria figlia di sei mesi dal balcone, mentre a Vicenza un’altra donna ha aggredito con le forbici la figlia di nove anni che stava andando a scuola, prima di gettarsi dal terrazzo. A Venezia, un marito è tornato a casa e ha trovato il figlio di sei anni soffocato e la moglie impiccata a una spalliera. Le madri uccidono, si uccidono e spesso vengono anche uccise dai loro compagni e mariti. Non c’è giorno in cui la cronaca non ci segnali il caso di qualche omicidio compiuto da uomini incapaci di accettare una separazione. La persecuzione degli ex, o comunque le molestie ossessive, sono diventate un fenomeno così dilagante e pericoloso da richiedere ormai una legge ad hoc.
Infanticidio e benessere
Naturalmente l’infanticidio è sempre esistito, l’ecatombe di figlie femmine che ancor oggi si perpetua in molti paesi orientali non fa che confermarcelo. In tempi passati, però, apparteneva soprattutto a realtà di degrado e di povertà, ma questi omicidi che popolano le cronache con sempre maggior frequenza sono omicidi compiuti in situazioni di benessere materiale. Non c’è una carestia che incombe e un’ennesima bocca che urla implorando cibo, non c’è la disperazione della donna sola, lontana dal suo paese, culturalmente incapace di informarsi sulla possibilità di lasciare anonimamente il proprio figlio in ospedale. Ci sono invece case Ikea sullo sfondo, villini con giardino, appartamenti dignitosi, mariti che lavorano. E allora? Da dove viene questa onda nera che offusca, travolge, distrugge quello che dovrebbe essere l’istinto più forte di una donna? Perché le madri uccidono? Cosa si nasconde in questo che le cronache definiscono «insano gesto?». Negli ultimi trent’anni ci sono stati così tanti e rapidi mutamenti sociali e culturali che è difficile mettere a fuoco un solo elemento scatenante: a partire dagli anni ’70 è avvenuta un’evoluzione dei costumi che ha stravolto i rapporti tradizionali tra uomo e donna, cancellando quello che, fino ad allora, era stata la struttura classica della famiglia. Da questa rivoluzione, eravamo certi, sarebbe nato un mondo più giusto, un mondo in cui le donne avrebbero smesso il loro ruolo di vittime per diventare protagoniste piene della realtà e compagne consapevoli dei loro partner. Anche gli uomini, infatti, erano mutati, avevano abbandonato i lati più retrivi del loro carattere ed erano pronti, senza più pregiudizi, senza più gelosie, ad affrontare i tempi nuovi che si affacciavano. A distanza di quarant’anni da allora, al di là delle indiscusse e indiscutibili conquiste delle donne, una cosa è evidente ed è che il modello femminile si è inesorabilmente conformato a quello maschile. Siamo conformi perché, come ho già detto, l’immagine che i media propongono di noi - a cui una buona parte delle donne consapevoli cercano strenuamente di resistere - è quello di una femmina puro oggetto di piacere e di seduzione. Siamo conformi perché l’aver liberato la sessualità dalla procreazione ci ha reso altrettanto libere dei maschi. Possiamo realizzarci, avere diverse storie secondo l’estro e l’umore, senza che questo coinvolga l’affettività, così come avviene nei maschi per i quali avere un’avventura non è che uno sfogo della loro esuberanza. Abbiamo imparato a gestire la nostra fertilità, facendo scivolare la maternità in coda alle priorità della nostra vita, salvo poi farla diventare un’imperiosa necessità quando ci rendiamo conto che l’orologio del tempo ha accelerato i suoi battiti. In qualche modo è avvenuta una sorta di pornografizzazione della società. Tutto sembra girare intorno al sesso - ad un sesso esibito, parlato, vissuto, consumato, condiviso. I giornali per adolescenti parlano di orgasmi come fossero scampagnate in bicicletta. Non c’è divo o diva che non racconti ai quattro venti le sue abitudini sessuali, il come, il quando, con quante, con quanti. Come non c’è - quasi - giornalista, lo dico per esperienza personale, che non ti faccia domande sulle tue preferenze sessuali. Sembra che il sesso sia l’unico grande pensiero dei nostri giorni e il piacere il pifferaio magico a cui tutti corriamo dietro estasiati. Anche in questo, i giornali e le riviste ci aiutano. Quanto hai goduto? Come hai goduto? Hai trovato il punto G, punto F, punto K? Sei nella norma, lui è nella norma? E la norma, cos’è? Uno, due, tre orgasmi per notte?
Anna Karenina, Giulietta dove siete?
Nella letteratura - che in questo si dimostra specchio della società - non va certo meglio. Non c’è romanzo che non contenga tediosissime pagine di descrizione di rapporti, di umori corporei, di dettagli anatomici, inframmezzati magari da penose osservazioni messe lì per cercare di far lievitare la pornografia in arte. Anna Karenina, Catherine Earnshaw, Jane Eyre, Giulietta, dove siete? I grandi amori contrastati, i grandi amori vissuti nell’ombra, nella difficoltà, hanno creato una letteratura indimenticabile, gli amori avviliti dal cronometro e dai dettagli anatomici provocano soltanto una noia profonda. Il piacere è il democratico tiranno dei nostri giorni. Sembra che l’uomo debba esistere e realizzarsi unicamente dalla cintura in giù, come se improvvisamente sul mondo si fosse sparsa una polverina magica, capace di trasformare gli esseri umani in un esercito di mandrilli in libertà. Ma, a parte i lati comici di questa ossessione collettiva, in una tale visione dell’attività sessuale è racchiusa una estrema povertà. Il livellamento obbligatorio - per cui o fai sesso o non esisti - mistifica quella che è una delle componenti più importanti dell’uomo, quella erotica. Ognuno di noi ha una diversa propensione all’eros, per alcuni è una forma di energia straordinaria, per altri più moderata, mentre per altri ancora è ininfluente nell’equilibrio della loro vita. L’eros è sempre un elemento della complessità della persona, e non solo cambia da individuo a individuo, ma può cambiare, nello stesso individuo, nel corso della sua vita. Tanto il piacere è una banderuola a cui affannosamente corriamo dietro, altrettanto l’eros è una realtà che ci precede, ci compenetra e dà un orizzonte ai nostri giorni. Noi siamo qui grazie all’eros dei nostri genitori, e grazie alla nostra forza erotica siamo capaci di progettare un futuro. L’eros, come ci ricordano tutte le culture dell’uomo, non è una forza indistinta, un magma senza volto, bensì il differenziarsi dell’energia primordiale in due forme contrapposte e pur tuttavia complementari: il femminile e il maschile. Tutto il vivente - a parte le forme ermafrodite appartenenti ai livelli più semplici della vita animale e quelle simpatiche patelle capaci di cambiare sesso in virtù del loro compagno - si manifesta ed evolve secondo questa polarità. Come nel simbolo dello yin e dello yang, ogni femminile deve contenere un punto di maschile, così come ogni maschile deve contenere un punto di femminile. Il momento in cui questa polarità si annulla, la forza erotica si inceppa, inciampa, casca, il suo infinito orizzonte si trasforma nella condominiale balaustra del piacere. Gli effetti della promiscuità obbligatoria, unite alla forza plasmante del consumismo, ci hanno subdolamente privato della nostra natura più profonda, trasformandoci in affannati cloni del modello maschile. Ma anche all’uomo non è andata molto meglio: privato di un vero femminile, si è sentimentalizzato, perdendo quelle prerogative positive implicite nella sua natura paterna e virile. Noi stesse per anni abbiamo in fondo voluto ignorare la nostra natura perché ad essa associavamo un’idea culturale di fragilità, di rassegnazione e di sottomissione che mal si conciliava con il nostro desiderio di libertà e di emancipazione. In questo rifiuto, non ci siamo accorte che tranciare così drasticamente le nostre radici non era molto diverso dal tagliare i capelli di Sansone. Senza spirito materno, ogni forza è perduta, perché è vero che le donne hanno una forza straordinaria, ma questa forza discende direttamente dalla capacità di accogliere e far crescere la vita. Tutte queste persone travolte dall’infelicità, dall’incapacità di mettere a fuoco i propri sentimenti, queste madri trasportate come foglie dal vento, senza più stabilità, senza più una vera ragione per vivere, non sono forse donne private del senso profondo del loro essere al mondo? «L’amore richiede forza», scrivevo in Va’ dove ti porta il cuore. Ed è proprio la forza la caratteristica dello spirito materno, la forza di questo amore capace di abbattere ogni ostacolo, di andare sempre avanti, senza scavalcare, senza aver fretta, ma accompagnando. Questo amore - da cui nasce ogni altro amore - è l’amore materno, perché la maternità non è un’ennesima tecnica da applicare al nostro corpo ma qualcosa che ci trascende, che ci lega misteriosamente all’essenza del nostro esistere. Senza questa consapevolezza, l’avere figli non diventa che un atto come un altro, e un figlio non è che un oggetto che può trasformarsi in un gioiello da esibire ma anche in un peso che non siamo più in grado di sopportare perché ci impedisce di realizzare i nostri sogni. Un peso che a volte non sopportiamo più, così come non sopportiamo noi stesse. Ci sentiamo sole. Per questo ammazziamo i nostri figli, per questo ci ammazziamo. Recidendo questa radice profonda, la nostra vita non è molto diversa da quella dei cumuli di foglie che il vento sposta in autunno.
Lo spirito della maternità
Non si tratta di tornare all’angelo del focolare, ma semplicemente di capire che la centralità della nostra vita di donne è lo spirito della maternità. Ripartire da lì. La maternità. Questa maternità, però, va intesa in senso nuovo, ben al di là della mera capacità fisica di procreare. Si può infatti non aver generato ed essere colme di maternità, come si può essere madri biologiche ed esserne totalmente prive. Questa società così fredda, così necrofila, così impaurita, così cinica - e allo stesso tempo così travolta dalle sbornie del sentimentalismo - ha paura dello spirito femminile perché questo spirito, che è concreto, attivo, la spingerebbe in una direzione opposta. Tornare alla nostra vera natura vuol dire rimettere al centro dei nostri giorni una forza armata di dolcezza. Vuol dire collaborare, invece di competere, saper accogliere e accudire tutto ciò che è piccolo e bisognoso di protezione, tutto ciò che è fragile. Sapere che il grande sforzo - quello che giustamente assorbe ogni nostra energia - è quello della crescita, perché costantemente cambiare, costantemente crescere è il senso di ogni essere umano e di ogni nuova vita che viene al mondo.
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14 giugno 2010
13 commenti:
Oddio, io ho letto solo le prime righe e le ultime e mi rifiuto non dico di analizzare, ma di leggere il resto. Ha perso un'ottima occasione per tacere. E pensare che l'unico libro di lei che ho letto (La raccolta di racconti "Per voce sola") mi era anche piaciuto e mi sembrava dalla parte di donne e bambini.
guarda, uguale e mi sono bastate le prime righe. Mi sono costretta a leggerlo velocemente tutto solo per dovere di completezza, visto che l'ho messo nel post, ma veramente, a star zitti non si intascano i cachet, questo è il problema.
angoscia terribile angoscia. non riesco a elaborare una frase diversa.
Voi lo sapete vero che ella non ha figli? Come si puo' argomentare di maternita' e infanticidio se non hai bambini???? Se non conosci la fatica di crescere delle persone?
A me lei non e' mai piaciuta, lacrimevole, smielata e orientata a sfruttare la malinconia nei suoi lettori.
Mi ha fatto rabbia leggerla, pero' pensandone tutto il peggio possibile non mi aspettavo niente di meglio che pontificazioni ex cathedra... ZiaSuora ne capisce di piu'.
Arianna BonzoMamma
Infatti, Arianna, c'è un paternalismo tutto talmente di stampo cattolico-femminofobo in questo nonsense che se lo avesse scritto il cardinal Biffi avrebbe almeno un senso.
Io ho preferito neanche cominciarla la questione: 'se non hai avuto figli davvero non ti puoi rendere conto', anche se è stata la prima cosa che ho pensato, per non mettere il mio commento allo stesso livello dell'articolo.
Però penso a questo punto che "La solitudine delle madri" dovrebbe essere lettura propedeutica e obbligata per chiunque si metta in mente di generalizzare sulla maternità.
Ecco proprio a questo ho immediatamente pensato: alla solitudine delle madri, e trovo vomitevole chi argomenta senza conoscere, scusatemi per il "vomitevole" ma è proprio la sensazione fisica che ho avuto leggendo velocemente tutte queste belle parole infiocchettate...
Pur pensando tutto il male possibile di ST, sul "se non hai figli non puoi parlare" non sono d'accordo. Si può parlare anhce di ciò che non si conosce direttamente, se lo si fa per capire oltre che per spiegare e se si è dotati di cervello e cuore, di capacità di ragionare e di empatia.
C'è un totale scollamento tra la prima parte dell'articolo e la seconda. Poi sul finale fa finta che tra di loro i due brani c'entravano qualcosa...
Mi è costato gran fatica leggere tutto mantenendo l'attenzione. Chi scrive in modo incoerente già non mi convince, figuriamoci poi se le argomentazioni sono così barocche...
sono basita. il primo commento che mi arriva alla bocca è che lei non ha figli e non ha orgasmi. e l'invidia genera squilibri. come squilibrato è l'articolo. e probabilmente la sua situazione. la ricerca dell'orgasmo non è l'uomo nero del nostro tempo. credo sia la solitudine la causa. una immensa incommensurabile solitudine. cosa di cui anche la tamaro soffre
Mah,mi fa lo stesso effetto del gruppo di facebook che voleva morta la madre di Gela (la donna che aveva annegato i due figli autistici): se non conosciamo bene le situazioni, non dobbiamo necessariamente commentare. Il concetto di pietà cristiana viene sempre lasciata sulla porta della Chiesa...detto questo, la Tamaro proprio non la digerisco
mah, la mia prof al liceo avrebbe scritto in alto a destra "fuori tema. 4" solo per l'assenza di logica e il salto di palo in frasca dall'omicidio-sicidio alle veline, stendiamo un tendone da circo pietoso sui contenuti. nemmeno io sono d'accordo sulla capacità di disquisire di cose mammensche se mamma non sei, io ho un figlio, ma certe cose in franchezza anche senza essere mamma le capisci benissimo. Essere mamma è un espletamento ( perdonate la formazione tecnica) dell'essere donna, l'istinto materno che ti porta a desiderarli lo hai prima e secondo me ti aiuta a capire, poi lo so che certe "fatiche" si comprendono solo vivendole, così come certe gioie. direi però che non è il caso della cara Susanna che all'essere umano che non ce la fa e si toglie la vita non tende la mano ma anzi getta addosso l'aggravante, secondo lei, di essere una madre, cioè un'entità destinata a tirare le locomotive sempre e comunque.
ricordatevi bene care ragazze se volete suicidarvi con il benestare della Susanna dovete diventare amanti di ufficiali dell'esercito russo.
Anche io mi sono arresa, annoiata subito dal cumulo di banalità da intervista al mercato del telegiornale. Nessuno spessore culturale, ma riflessioni da bar o da parrucchiera o da palestra ( e' il tenore che sento in palestra, delle riflessioni intendo). Ci si immagina che chi scrive sappia riconoscere i drammi umani, almeno grazie alla lettura dei classici e sappia delineare la distanza tralampropria morale bigotta o meno e l'umano nel suo esser fragile.
Povera Susanna on redazione con Emilio Fede o a Porta a porta troverebbe finalmente la sua dimensione professionale più adatta...
o cazzarola...sapevo che stava "inguaiata" ma non credevo cosi tanto! sono d'accordo con Barbara, non credo bisogna essere mamme per poter pensare logicamente alla solitudine, non solo delle mamme,ma in genere delle donne che molto spesso devono lottare contro i soliti stereotipi concepiti il + delle volte da una società catto-maschilista che ingloba ahime! anche donne poco realiste.
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